2013
Pensieri Rossoblù: “Essere grandi”
Non sono d’accordo ma poco ci posso fare.
Non passa giorno infatti, che ci sia il campionato o meno conta poco, che tra giornalisti ed opinionisti, procuratori ed allenatori, non si sottolinei come il Cagliari, e chi si trovi in situazioni di classifica simili, non sia una grande squadra. Permettetemi allora di precisare o quanto meno argomentare.
Chiariamo, se il discorso è meramente geografico, basato quindi su demografia ed estensione territoriale, si Cagliari non è grande, questo è un dato oggettivo. Mi pare però alquanto bislacco che si possa dare un connotato di meritocrazia a chi “ce l’ha più grande” (la città, ovvio). Son convinto quindi che chi instancabilmente sottolinea questo concetto basi la sua teoria su altro.
Bene, forse il numero di vittorie. Sì, questo potrebbe convincermi, però. Però mi pare alquanto puerile e superficiale misurare la “grandezza” di una squadra in base al numero di stelle, mostrine e ricami vari sulle maglie da gioco. Troppe variabili sono in gioco, da quella economica (forse le regina) a quelle sociali e culturali. Se non erro gli stessi pensatori sono quelli che poi non perdono occasione per esprimere concetti come “Ah ma uno scudetto qui, vale come quattro e mezzo lì. Mezzo scudetto là vale come tre scudetti e nove decimi qua” e via discorrendo (mi sia concessa la velata ironia).
Ma tant’è, facciamocene una ragione. Signori, noi non siamo una grande squadra. E’ quindi giusto che ragazzi che indossano la maglia che rappresenta la nostra città siano incoraggiati a cambiare aria, a causa di questo parametro dimensionale. Sapete cosa vi dico, ok, ci sto. Vi concedo anche questa. Ma permettetemi di dire quanto segue, con annessa provocazione.
Cambiare squadra è giusto e sacrosanto, i mercenari non esistono. Ci sono solo professionisti, spesso giovani e male consigliati, che, chi con più tatto e corretta tempistica e chi meno, cambiano datore di lavoro, magari per un salario migliore. Questo è sacrosanto, sarei io il primo, come si dice, “visti i tempi…”. Ragazzi mettete da parte e guadagnate voi che potete, niente di male.
Quel che non comprendo però è perché, se la questione non è economica come spesso detto o fatto intendere, un giocatore dovrebbe voler andare a giocare in una big (niente da fare, ho provato con il termine anglosassone ma il fastidio comunque rimane) e diventare così uno dei tanti.
Perché, da sportivi e professionisti, non si ritiene più impellente, avvincente e probante la sfida di far diventare vincente chi magari vincente non lo è poi così tanto? Ma perché è così bistrattata l’idea di fare la storia del calcio e dello sport?
Lo sport è sfida e competizione, quale sfida allora è più grossa ed ambiziosa di questa?
Ovvio esistono delle misure in tutto questo e magari il mio è solo il tentativo disperato di un tifoso che ha paura che quello che di bello vede ed immagina all’orizzonte ad un tratto voli via.
Però nel profondo ci credo.
Nel profondo sono convinto che tutti i ragazzi che quest’anno hanno sudato le maglie rossoblù forse da bambini sognavano altri colori ma ora sanno, da uomini, che le sfide vere sono altre. Le sfide vere sono quelle che in molti hanno paura ad affrontare. Chiedetelo all’uomo silenzioso, arrivato ragazzo dal nord e che ha fatto la storia…