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Nicola: «Cagliari? Vi spiego come funziona il mio calcio»

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Davide Nicola, allenatore del Cagliari, ha rilasciato delle dichiarazioni verso l’inizio della stagione tra Coppa Italia e campionato di Serie A

Nella giornata odierna Davide Nicola ha parlato a lungo e su svariati temi per il quotidiano L’Unione Sarda. L’allenatore del Cagliari ha rilasciato delle dichiarazioni verso l’inizio della stagione tra Coppa Italia e campionato di Serie A. Le sue parole:

CAGLIARI – «Parto dalla squadra: ho trovato un gruppo meraviglioso, magico, caratterizzato da una fortissima identità. Loro sanno già che tante cose cambieranno, lo stiamo già facendo, ma questo spirito va preservato».

SARDEGNA – «E poi c’è la Sardegna. Io l’ho scoperta da bambino grazie ad Abele Atzori, un caro amico che mio padre andava a trovare a Piscinas, nel Sulcis-Iglesiente. Quando tornava ci raccontava di questa terra meravigliosa. Poi Abele venne a vivere nel nostro paese. Quando a Vigone vedevamo già la prima neve, grazie ai loro racconti avevamo negli occhi il mare, il sole, i cespugli di mirto e i fichi d’india. Mi sono innamorato di questa terra già allora. Abele ha sempre avuto con lui e con noi un rapporto tale da raccontarci la Sardegna con enorme passione. Grazie a lui so che il Cagliari è molto più di una squadra, l’identità del popolo di cui parlava Riva».

VALORE DELLA ROSA – «Ho una squadra che ha recepito tanto di quello che ho trasmesso. Ho avvertito subito dedizione al lavoro, senso di appartenenza, identità: i più esperti me lo dimostrano senza risparmiarsi. È un valore aggiunto».

I GIOVANI – «Vedo già potenzialità importanti. C’è da lavorare, ma hanno i numeri per raggiungere la consapevolezza di quel che dovranno essere a Cagliari. Chi tenere? Qualcuno andrà a maturare altrove, qualcuno è già andato, altri arriveranno perché io, il direttore, e la società abbiamo le idee chiare su cosa va fatto e cosa ci serve».

OBIETTIVI – «Non credo che un allenatore dovrebbe parlare di questo. O meglio: so che già solo restare senza soffrire nell’élite delle prime venti squadre del calcio è un’impresa meno scontata che in passato. Tuttavia… Cosa? I miracoli non esistono. Si costruisce tutto con il lavoro e con il tempo. L’Atalanta ha costruito il suo grande ciclo in otto anni. Io so bene quale è il nostro obiettivo, oggi, ma ci sono molte condizioni per immaginare un ciclo».

MISTER SALVEZZA – «Orgoglioso del nome? Per nulla. Come, come? Talvolta è persino più facile. Arrivi perché le cose vanno male, le aspettative sono a zero, di peggio non si può fare, si crea una chimica nuova, una solidità di intenti dentro lo spogliatoio, che prima non c’era. Una medaglia le cinque salvezze? Un giorno, Enzo Biagi chiese a Gianni Agnelli: “Si considera un sovrano senza corona?”. Lui gli rispose così: “Noi uomini della Fiat abbiamo tre principi. Uno: non perdiamo tempo ad ascoltare il parere degli altri. Due: non ci prendiamo mai troppo sul serio; ma – tre – prendiamo tremendamente sul serio quello che facciamo”. Ecco, se guardi la mia carriera scopri che le stagioni in cui sono subentrato sono meno della metà. Io sono passato da Lumezzane a Livorno, a Crotone, a Torino, Genova e Udine, allenando con relativa tranquillità. A parte Torino, dove già sapevo che non saprei potuto restare, lottavo per ripartire una volta conquistata la salvezza. L’ho fatto a Salerno: fui confermato, e quell’anno la Salernitana non è stata mai in zona retrocessione».

ETICHETTE – «Dopo la mia carriera da calciatore, ho passato più tempo ad allenare sereno in Serie A, che impegnato nelle salvezze impossibili. Per questo l’etichetta di “Uomo dei miracoli”, anche quando può sembrare utile, o lusinghiera, non mi interessa».

SALVEZZA CON L’EMPOLI – «Ero lucido. Non aveva senso preoccuparsi di cosa poteva succedere: io avevo già lavorato, i ragazzi anche, potevo solo ottimizzare quel lavoro dando ai miei le indicazioni giuste. Ma quando arrivi all’ultima partita, all’ultimo punto, all’ultimo minuto, tu sai già che percorso hai fatto. Solo quello conta. Perdere? Ah, certo (poteva succedere n.d.r.). Per questo so che chi retrocede per un punto non è mai peggiore di chi si salva per uno».

NICOLA DA PICCOLO – «Non potrò mai dimenticare la scena di quando a quattordici anni me ne andai via di casa per andare nel settore giovanile del Genoa. Ricordo gli occhi di mia madre, in lacrime, sulla porta, e solo ora so cosa significa, il dolore della separazione, quando un figlio si allontana per cercare la sua strada».

CROTONE E DISCORSI MOTIVAZIONALI – «Partiti sottovalutati da tutti, considerati inadeguati, stolti o sciocchi… abbiamo dato un messaggio alla gente, ai giovani. Io, oggi, vorrei che i loro desideri non restassero solo nei loro cuori. Era ispirato o ha un ottimo ghost writer? (Ride N.d.r.) Io non scrivo mai una sola riga quando parlo. È semplice. Parlo a braccio, partendo dalla situazione in cui ci troviamo. E dico sempre quel che penso. Reminescenze shakespireane? Ma figurati. Casomai, risentendolo oggi, vedo la traccia di una mia grande passione che pochi conoscono: Rango».

DATI – «Per nulla. E le faccio un esempio: un giorno nel dopo partita mi sento dire: “l’Empoli ha avuto il 65% di possesso”. Era ovvio: stavamo perdendo tre a zero, provavamo a rimontare. Però giocavamo male! I numeri, mai come oggi che ne abbiamo così tanti, vanno interpretati bene. Un esempio? Forse Albert Einstein aveva in mente il calcio quando diceva: “Non tutto ciò che conta può essere contato e non tutto ciò che può essere contato conta. Ormai ci tariamo su partite che durano almeno 95 minuti. E l’anno scorso, in una delle sfide più importanti, abbiano giocato a 103 minuti e 36 secondi. Se ci pensate è quasi come un intero tempo supplementare. Quindi, quando devo esaminare i dati di una partita, per capire, semplifico molto. In che modo? In questi 95 minuti quante volte sono entrato nell’imbuto dell’area avversaria? Con quante palle? Non mi interessa il possesso, soprattutto se è sterile scambio orizzontale. Mi interessa quante palle veramente pericolose produco. Il dato fondamentale è quanti giocatori ho portato in area per chiudere l’azione. Ne sono entrati uno, due, quattro, sei? Con quanta costanza? Qual è il totale dei cross utili?. Archivio? Ovvio, partiamo da questi dati. Io posso preparare un lavoro per i ragazzi, ma se non so quanto dispendio costa al gruppo, al singolo, come faccio a programmare gli impegni e i carichi di ognuno? Le diversità sono il sale delle squadre».

SCHEMI E TRIANGOLI – «Certo. Tutti partiamo dagli schemi, ma nel calcio non sempre è possibile attuare ciò che prepari. Lo schema cos’è? Una relazione geometrica tra calciatori, che loro devono sapere riconoscere, distruggere e ricostruire, seguendo il loro intuito. Lo sviluppo di gioco nasce sempre da situazioni contingenti, e produce sempre variabili imprevedibili. Rombo? Rombi, quadrati, ma anche triangoli. Adesso io le piazzo questi quattro bicchieri davanti al naso. Immaginando che lei abbia alla spalle la sua porta, e davanti – dove sono io – quella avversaria, abbiamo disegnato le coordinate della figura base: il famoso rombo. Ogni volta che un vertice – cioè un giocatore – si muove, attacca, avanza lasciando libera la sua posizione, gli altri vertici devono muoversi in sostituzione per ricostruire la geometria del rombo. Vede dove va il bicchiere più basso per sostituire il laterale che si è spostato avanti? È un piccolo-grande principio su cui si muovono tutte le mie squadre»».

QUALITA’ DEI SINGOLI – «Io non sono mai schiavo degli schemi. Se ho un calciatore di una certa età che ha due qualità forti, devo sfruttarlo per valorizzarlo, senza chiedergli cose che – penalizzando lui – danneggiano la squadra; se gli dico di fare un movimento, ma poi mi accorgo che lui istintivamente ne fa un altro ma è più efficace, sono io che modello l’assetto in campo sfruttando la sua dote per la squadra! Calcio innovativo? Mah! Nel calcio ci sono state tante mode: fasi in cui se proponevi qualcosa di “nuovo” ti chiamano “visionario”, e se riproponevi qualcosa di “classico” ti bollavano come “retrogrado”. Io metto in campo ciò che mi serve per vincere, e delle etichette me ne frego».

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