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Domenghini: «Smentimmo tutti: lo scudetto di Cagliari è storia» – ESCLUSIVA
Un salto indietro di cinquant’anni: riviviamo con Angelo Domenghini, ex ala del Cagliari e della Nazionale, la conquista dello scudetto 1969/70
Dalla sua Lallio ad Atalanta, Inter, Cagliari, Roma. Tre scudetti, una Coppa dei Campioni, una Coppa Italia, due Intercontinentali ed un Campionato Europeo. Una carriera a far su e giù sulla fascia: prima col nerazzurro di Atalanta ed Inter poi con la maglia del Cagliari. Angelo Domenghini, sempre dalla sua Lallio, ci racconta di quella magica stagione 1969/70, quando a Cagliari sollevò uno scudetto che ancora oggi – a cinquant’anni di distanza – viene festeggiato dalla città e dall’isola. Un titolo che a detta sua – che di coppe ne aveva alzate – vale di più. La nostra intervista all’ex ala della Nazionale, in rossoblu dal ’69 al ’73: Domingo ha vissuto l’epopea e l’inizio del lento declino dei rossoblu.
Partiamo dall’inizio: ci racconta il suo passaggio al Cagliari? Come lo visse?
«Beh, fu un po’ triste. Ero abituato da dieci anni a stare a Bergamo, andare in un’isola non era il massimo: non ho esultato, insomma. Ho contestato un po’ il presidente dell’Inter ma ho dovuto accettare, il passaggio allora mi sembrava un po’ declassante. Anche se sapevo benissimo che il Cagliari era una squadra molto competitiva: l’anno prima era arrivata seconda e con qualche innesto poteva diventare una squadra abbastanza forte. Ho accettato perchè dovevo».
Poi?
«Poi a Cagliari mi sono trovato benissimo, ho trovato dei compagni stupendi. C’era Scopigno, un allenatore che è riuscito a darci grandi responsabilità ma senza grandi obblighi: ricordo che non andavamo in ritiro, per noi fu una cosa bella. Cagliari non era una città come adesso, era molto piccola, poche vie. Facevamo da casa all’Amsicora per allenarci, per mangiare ci vedevamo al Poetto o al ristorante».
C’è stato un momento in particolare in cui avete capito che lo scudetto era possibile?
«Sì, abbiamo capito subito che potevamo farcela: i risultati erano a nostro favore. Si giocava un buon calcio e la squadra era competitiva in tutti i reparti. Eravamo una squadra molto equilibrata ma anche molto tecnica: è la sintesi di un Cagliari molto forte».
Venendo al grande giorno: ha un ricordo in particolare di quel Cagliari-Bari 2-0?
«E’ tutto un bel ricordo, quasi nessuno da fuori credeva che si potesse vincere uno scudetto a Cagliari. Invece noi ci abbiamo creduto ed abbiamo meritato ampiamente il titolo. Poi è stato tutto una festa, tutta la città fu travolta da un enorme entusiasmo per settimane: la gente ci seguiva, non ci si poteva muovere…».
A 50 anni di distanza l’eco di quel trionfo resta forte. Anzi, se possibile acquista ancora più significato.
«Lo so, tra l’altro era in programma la festa del cinquantenario. Poi questo virus ha cambiato tutti i piani. La festa è stata rimandata, ci sarebbe dovuto essere il gala all’Amsicora e il giorno dopo alla Sardegna Arena tutti noi vecchietti (ride, ndr) avremmo dovuto fare il giro del campo».
Altra considerazione condivisa da tanti: senza l’infortunio di Riva il Cagliari avrebbe vinto ancora. E’ d’accordo?
«Beh, certo: Gigi era il nostro punto di riferimento, il goleador della squadra. Faceva più di venti gol all’anno…Dieci li facevo io, sei Gori, Brugnera altrettanto. Poi c’erano Greatti, Cera e Nenè soprattutto».
E’ vero che, al tempo, a Scopigno ripeteva spesso che lo scudetto di Cagliari ne valeva cinque vinti a Milano o Torino?
«Sì. Vincere uno scudetto a Cagliari è una cosa che succede una volta nella vita. Come poi è successo qualche tempo dopo al Verona. Oltre all’infortunio di Riva, se non ci avessero spostati al Sant’Elia avremmo potuto lottare per vincere lo scudetto per altri tre o quattro anni: all’Amsicora potevamo anche giocare male, ma la partita poi la vincevamo. Era un ambiente sfavorevole per gli ospiti: chi veniva a Cagliari andava sempre in difficoltà. Ma per noi che ne conoscevamo ogni angolo era tutto più semplice».
Tra l’altro erano anni davvero d’oro: anche l’Italia aveva il blocco-Cagliari, cosa oggi impensabile
«Sì, eravamo in sei del Cagliari. Di quel periodo in Nazionale ho bei ricordi tra Europeo ’68 e Mondiale messicano. Nel ’68 abbiamo vinto gli Europei, e quando vinci hai sempre bei ricordi… La semifinale contro l’URSS a Napoli fu una lotta, si fecero male sia Rivera che Bercellino ed io dovetti fare il terzino con Burgnich stopper. Zero a zero dopo i supplementari, presi anche un palo…Poi c’è stato il lancio della monetina (dopo i supplementari non erano previsti i rigori, ndr), ricordo che aspettavamo con ansia l’esito. Sappiamo come è andata, Facchetti è stato molto bravo e fortunato, come tutti noi. A Roma sfidammo in finale la Jugoslavia, squadra più forte di noi. Nella prima partita un mio gol su punizione un po’ fortunoso ci ha mandato alla ripetizione della finale, in cui siamo stati superiori tecnicamente e tatticamente. Con l’innesto di Anastasi e Riva, che poi hanno segnato, abbiamo vinto».
Di quel periodo si parla dei vari Riva, Mazzola, Rivera. Il suo nome si sente poco, eppure…
«Il calcio è così, le primedonne sono sempre elogiate. A me andava bene così, davo quel che potevo. Poi va tutto anche un po’ a simpatia dei giornalisti e di come interpretano le partite. Però se si guarda un po’ ai risultati ed alle partite, Domenghini ha salvato Valcareggi e l’Italia in tre o quattro occasioni: posso essere contento e ritenermi alla pari di altri».
Veniamo all’oggi: c’è un sette alla Domenghini?
«Non esistono giocatori con caratteristiche uguali tra loro. Ci si fa sempre questa domanda pensando ai calciatori del passato e quelli del presente, ma è impossibile rispondere. Come chiedere se c’era un altro Riva, non esiste: ce n’è solo uno, ed è Gigi Riva».