2013

ESCLUSIVA – De Paola: “Il mio Cagliari, una famiglia di uomini veri”

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Luciano De Paola arriva a Cagliari quando i rossoblù sono in serie C, e partecipa alla gloriosa cavalcata che porta i quattro mori in serie A nell’arco di due soli anni. Poco dopo passa al Brescia, ma in Sardegna la sua figurina è ancora attaccata all’album dei ricordi dolci, fa parte di una squadra che è stata capace di risvegliare il sentimento rossoblù in modo esplosivo dopo qualche anno di assopimento.
I microfoni di CagliariNews24 lo hanno raggiunto per una chiacchierata fra passato e presente.

Iniziamo da oggi: nella stagione appena conclusa sei subentrato sulla panchina del Trento, buoni risultati ma alla fine non è bastato.
Ho preso una squadra che dopo 18 partite aveva sei punti: nel girone di ritorno ne abbiamo fatti 25, compresi tre che ci hanno tolto per irregolarità amministrative. Era una squadra lanciata verso l’ultimo posto, siamo arrivati terz’ultimi e probabilmente il Trento sarà ripescato. L’anno prima a Seregno avevo fatto un’impresa con una squadra che aveva però 13 punti. Con il Trento sarebbe bastato qualche punticino in più per il miracolo ma partendo da sei era veramente una sfida disperata, peccato.
Ad oggi col presidente ci sentiamo ancora tutti i giorni, potrei restare là; però ad essere sinceri mi piacerebbe provare qualcosa di diverso. C’è qualche possibilità in giro, anche tramite Mircea Lucescu che ho visto in questi giorni e mi vorrebbe in Romania. Vedremo, ci sto pensando: per me il calcio è un divertimento. Vivo a Brescia dove ormai mi sento a casa, ho la mia famiglia qui.

Parliamo di rossoblù, cosa ti fanno venire in mente questi colori?
A Cagliari ho vissuto davvero dei bei momenti. Ogni tanto mi capita di vedere qualche immagine, qualche video: pur non essendo per natura un nostalgico mi emoziono a rivedere scene di quei tempi. Un esempio è il Sant’Elia stracolmo di gente, così diverso dagli stadi semivuoti di oggi. Quando fummo promossi dalla serie C alla B c’erano 35000 persone sugli spalti, idem l’anno dopo per il passaggio in serie A. Era un altro mondo, un altro modo di fare calcio. Altri giocatori, altro carattere, altra voglia.
Quando, per partite di beneficenza o eventi simili, ci si trova fra ex giocatori di quei tempi si parla del “nostro” calcio, più cattivo ma più attaccato alla maglia.
E’ naturale che il mondo cambi, oggi vedi i giocatori incollati all’iPhone o alle cuffie, io mi ricordo che dormivo con il pallone: si mangiava pane e calcio.

Accanto a te in quel centrocampo c’era un certo Ivo Pulga.
Ivo l’ho incontrato quando allenava la primavera del Modena ed io ero alla guida dei giovani del Brescia: l’ho sempre bastonato (ride, ndr). Scherzi a parte sono molto contento per lui, è un grande professionista e un bravo ragazzo.
In quella squadra ce n’erano tanti, persone per bene capaci di essere leader silenziosi. Penso a Lucio Bernardini, Massimiliano Cappioli, Guglielmo Coppola.

A quell’epoca a Cagliari si pensava che quella squadra, capace di crescere così in fretta, potesse fare qualsiasi cosa.
Credo che in quegli anni si siano davvero gettate le basi per il futuro, era un Cagliari fatto da uomini che lottavano insieme ed erano amici. Ci si trovava spesso insieme anche fuori dal campo, con i compagni e con l’allenatore.
Permettimi di citare Maurizio Giovannelli, capace in quegli anni di fare da punto di riferimento per tutta la squadra. Ci ha trascinato durante la stagione della promozione in serie B, poi si puntò legittimamente su altri ma l’inerzia ormai era impressa.

Ancora oggi segui le imprese dei rossoblù?
Eccome. Guardo sempre molto volentieri il Cagliari, lo seguo. Insieme a Pulga anche Lopez ha fatto veramente un ottimo lavoro, è un grande allenatore. Poi c’è il valore aggiunto di uno zoccolo duro importante. Penso a Conti, capitano e giocatore importantissimo, ma anche a Cossu che è uno splendido trequartista.
E’ una squadra di qualità, Cellino ogni anno piazza qualche colpo importante. Fra parentesi, due come Conti e Cossu sono uomini che avrebbero ben figurato anche ai miei tempi.

Che differenza c’è fra un calciatore di oggi ed uno di allora?
Oggi ci sono tanti giocatori che stanno ad alti livelli ma che avrebbero fatto fatica ai miei tempi. Oggi è un altro sport, è diventato un calcio basato sulla corsa, sulla prestanza fisica. Detto da uno che si è occupato di giovani: oggi se qualcuno ti deve descrivere un giocatore promettente ti elenca le sue misure fisiche, senza quasi citare le doti tecniche.
Certo, i giocatori di sostanza c’erano anche ai tempi miei, ma accanto ad un De Paola c’era un Bernardini. Oggi un brevilineo svelto fa fatica ad emergere, quasi quasi Messi è una stranezza.

Ci racconti quando ti sei reso conto che il tuo Cagliari avrebbe potuto spiccare il volo?
Intanto diciamo che era una bella piazza. Ho uno splendido ricordo dei fratelli Orrù, i presidenti di quel Cagliari. Fu bravo Carmine Longo nell’allestire la squadra e tutto il settore tecnico nel coltivare il gruppo. Era una famiglia, io venni preso su suggerimento di Gianni Di Marzio e ricordo quando Ranieri, appena arrivato, venne da me e Giovannelli. Ci disse “Io voglio diventare un allenatore. Conto su di voi”. Lì iniziò tutto, ora che sono dall’altra parte della barricata mi rendo conto che è l’allenatore a far diventare grandi i giocatori, anche con responsabilizzazioni simili.
Tutti sanno come si è sviluppata poi la carriera di Ranieri: noi lo sapevamo da allora, aveva gli occhi giusti di chi è destinato ad arrivare in alto.

 

Un grazie a Luciano De Paola per la cortese disponibilità

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